L'approfondimento: La Corte diGiustizia Tributaria di II grado della Lombardia, con la sentenza del 15 febbraio 2023, n. 609, si è occupata, nell’ambito della disciplina dei prezzi di trasferimento, del mancato
riaddebito alla capogruppo estera delle spese sostenute per l’attivazione di iniziative di pubblicità e marketing dei prodotti dalla stessa venduti nel territorio dello Stato, contraddistinti dal marchio del gruppo.
Con la sentenza in rassegna n. 609/2023 i giudici tributari di appello hanno affrontato il caso ricorrente in cui la controllata residente che svolge nel territorio dello Stato la funzione di distributore dei prodotti del gruppo contraddistinti dal relativo marchio, al fine di incentivare le vendite, pone in essere una serie di attività promozionali (i.e. pubblicità e marketing) sostenendo i relativi costi e contribuendo, ancorché indirettamente, ad accrescere il valore del marchio di cui non ne è proprietaria. Nel caso di specie, come vedremo meglio in prosieguo, si ricava che i giudici de quo hanno formulato la relativa sentenza tenendo conto di quanto segue:
- non vi era alcun accordo tra le parti per il sostenimento di tali spese;
- la società non aveva mai ricevuto riaddebiti dalla controllante per la diffusione e/o valorizzazione
del marchio;
- non vi era alcun pagamento di royalties per l’utilizzo del marchio.
Tali elementi hanno portato a ritenere che non vi era alcun un vantaggio concreto in termini monetari per l’impresa residente, considerata l’assenza di obbligo da parte della controllata domestica di rindebitare i costi promozionali in parola, maggiorati di un adeguato mark-up, alla controllante estera titolare del marchio e, quindi, in tal caso prevalgono le logiche economiche e commerciai di mercato1. Prima di entrare nel merito della sentenza de qua, giova brevemente evidenziare che per meglio comprendere le regole di transfer pricing applicabili ai c.d. intagibles assets, occorre considerare il ruolo sempre più importante che gli stessi hanno acquisito nel tempo nella vita delle imprese multinazionali. Infatti, è noto ormai, che tali imprese costruiscono il loro business in modo sempre più incentrano sugli intagibles, i quali hanno assunto un ruolo fondamentale nell’ambito dei processi di creazione del valore. Ciò vale sia nei settori tradizionali dell’industria che in quelli della moda, alimentare, editoria e non da ultimo in quelle delle c.d. web company.
Tant’è che questo aspetto è stato attenzionato sia dalle Amministrazioni fiscali degli Stati che dell’OCSE preoccupate delle problematiche c.d. di profit shifting connesse alle transazioni intercompany aventi ad oggetto tali beni immateriali non rispettose dell’arm’s length principle. Per talemotivo si è avvertita l’esigenza di introdurre nuove regole basate sulla sostanza volta a chiarire la definizione di intangibile e a garantire che i relativi profitti siano allocati tra le società del gruppo secondo il criterio della creazione di valore2. Il nuovo approccio è stato raggiungo attraverso il progetto meglio notocomeBase Erosion and Profit Shifting (BEPS), lanciato dall’OCSE dieci anni or sono (febbraio 2013) per identificare i fenomeni di pianificazione fiscale aggressiva che comportano l’erosione della base imponibile nei vari Stati mediante lo spostamento dei profitti all’estero e le
soluzioni per contrastare gli stessi. In particolare, le Azioni 8-10 nate per perseguire la sostanza delle operazioni cercano di comprendere se le parti di una transazione controllata ricavano profitti in virtù delle funzioni svolte, dei beni utilizzati e i rischi assunti o se al contrario vi sia un’incongruenza tra le disposizioni contrattuali e la reale condotta delle parti. In sostanza, ciò che occorre ora verificare è che vi sia una reale corrispondenza tra ciò viene documentato, ad esempio nei contratti, con la reale condotta delle parti, ma soprattutto che vi sia effettivamente la capacità di tenere tale condotta, prevalendo in detta fattispecie il principio di substance of the form3. Nel luglio 2017, l’OCSE ha pubblicato la nuova versione delle Guidelines che forniscono linee guida operative per l’applicazione dell’arm’slength principle nelle transazioni intercorse tra imprese appartenenti al medesimo gruppo multinazionale, al fine di recepire le principali modifiche introdotte dai lavori derivanti dal richiamato progetto BEPS, tra cui il Capitolo VI interamente dedicato alla disciplina dei beni immateriali ai fini delle analisi di transfer pricing.
In primo luogo, si osserva che il capitolo 6 delle richiamate Guidelines OCSE è stato emendato con l’obiettivo di fornire una più precisa definizione di beni immateriali nell’ambito del transfer pricing. A tal fine, si precisa che il termine intangibile è da intendersi riferito a qualcosa che non sia a physical asset or a financial asset, che può essere posseduta o controllata per essere utilizzata in attività commerciali e il cui utilizzo o trasferimento sarebbe remunerato se fosse realizzato in una transazione tra soggetti indipendenti in circostanze similari4.
Nell’ambito delle disposizioni domestiche, allo scopo di recepire i chiarimenti e le revisioni concordate dal progetto BEPS, tra l’altro, con le Azioni 8-10 - Aligning Transfer Pricing Outcomes with Value Creation, recepite nelle predette Guidelines 2017, sono state aggiornate, tra l’altro, le disposizioni relative al regime degli oneri documentali in materia di transfer pricing (Master file e Country file) con l’obiettivo di fornire una migliore descrizione e valutazione delle operazioni infragruppo idonea a consentire all’Amministrazione finanziaria il riscontro della conformità dei prezzi di trasferimento praticati5. Al riguardo, in tema di beni immateriali del gruppo multinazionale, la nuova struttura del Master file prevede ora che si debba innanzitutto descrivere la strategia globale del gruppo, inclusa la localizzazione delle principali strutture di ricerca e sviluppo e la gestione dell’attività di ricerca e sviluppo. Inoltre, occorre poi fornire un elenco dei beni immateriali o dei gruppi di beni immateriali maggiormente rilevanti ai fini dei prezzi di trasferimento detenuti da ciascuna impresa coinvolta nelle operazioni e occorre ancora indicare anche i soggetti che hanno la titolarità giuridica dei già menzionati beni
immateriali. Comemeglio precisato dall’Agenzia delle entrate con la circolare del 26 novembre 2021, n. 15, tale capitolo deve comprende anche la descrizione:
• degli accordi relativi ai beni immateriali conclusi tra le entità appartenenti al medesimo gruppo, identificando anche le imprese associate, tra cui gli stessi sono stati stipulati, compresi gli accordi sulla ripartizione dei costi, i principali accordi per la prestazione di servizi di ricerca e sviluppo e gli accordi di licenza;
• delle politiche di prezzi di trasferimento relative alla ricerca e sviluppo e ai beni immateriali, delle transazioni rilevanti, unitamente all’indicazione delle entità locali, degli Stati coinvolti e della relativa remunerazione.
- non vi era alcun accordo tra le parti per il sostenimento di tali spese;
- la società non aveva mai ricevuto riaddebiti dalla controllante per la diffusione e/o valorizzazione
del marchio;
- non vi era alcun pagamento di royalties per l’utilizzo del marchio.
Tali elementi hanno portato a ritenere che non vi era alcun un vantaggio concreto in termini monetari per l’impresa residente, considerata l’assenza di obbligo da parte della controllata domestica di rindebitare i costi promozionali in parola, maggiorati di un adeguato mark-up, alla controllante estera titolare del marchio e, quindi, in tal caso prevalgono le logiche economiche e commerciai di mercato1. Prima di entrare nel merito della sentenza de qua, giova brevemente evidenziare che per meglio comprendere le regole di transfer pricing applicabili ai c.d. intagibles assets, occorre considerare il ruolo sempre più importante che gli stessi hanno acquisito nel tempo nella vita delle imprese multinazionali. Infatti, è noto ormai, che tali imprese costruiscono il loro business in modo sempre più incentrano sugli intagibles, i quali hanno assunto un ruolo fondamentale nell’ambito dei processi di creazione del valore. Ciò vale sia nei settori tradizionali dell’industria che in quelli della moda, alimentare, editoria e non da ultimo in quelle delle c.d. web company.
Tant’è che questo aspetto è stato attenzionato sia dalle Amministrazioni fiscali degli Stati che dell’OCSE preoccupate delle problematiche c.d. di profit shifting connesse alle transazioni intercompany aventi ad oggetto tali beni immateriali non rispettose dell’arm’s length principle. Per talemotivo si è avvertita l’esigenza di introdurre nuove regole basate sulla sostanza volta a chiarire la definizione di intangibile e a garantire che i relativi profitti siano allocati tra le società del gruppo secondo il criterio della creazione di valore2. Il nuovo approccio è stato raggiungo attraverso il progetto meglio notocomeBase Erosion and Profit Shifting (BEPS), lanciato dall’OCSE dieci anni or sono (febbraio 2013) per identificare i fenomeni di pianificazione fiscale aggressiva che comportano l’erosione della base imponibile nei vari Stati mediante lo spostamento dei profitti all’estero e le
soluzioni per contrastare gli stessi. In particolare, le Azioni 8-10 nate per perseguire la sostanza delle operazioni cercano di comprendere se le parti di una transazione controllata ricavano profitti in virtù delle funzioni svolte, dei beni utilizzati e i rischi assunti o se al contrario vi sia un’incongruenza tra le disposizioni contrattuali e la reale condotta delle parti. In sostanza, ciò che occorre ora verificare è che vi sia una reale corrispondenza tra ciò viene documentato, ad esempio nei contratti, con la reale condotta delle parti, ma soprattutto che vi sia effettivamente la capacità di tenere tale condotta, prevalendo in detta fattispecie il principio di substance of the form3. Nel luglio 2017, l’OCSE ha pubblicato la nuova versione delle Guidelines che forniscono linee guida operative per l’applicazione dell’arm’slength principle nelle transazioni intercorse tra imprese appartenenti al medesimo gruppo multinazionale, al fine di recepire le principali modifiche introdotte dai lavori derivanti dal richiamato progetto BEPS, tra cui il Capitolo VI interamente dedicato alla disciplina dei beni immateriali ai fini delle analisi di transfer pricing.
In primo luogo, si osserva che il capitolo 6 delle richiamate Guidelines OCSE è stato emendato con l’obiettivo di fornire una più precisa definizione di beni immateriali nell’ambito del transfer pricing. A tal fine, si precisa che il termine intangibile è da intendersi riferito a qualcosa che non sia a physical asset or a financial asset, che può essere posseduta o controllata per essere utilizzata in attività commerciali e il cui utilizzo o trasferimento sarebbe remunerato se fosse realizzato in una transazione tra soggetti indipendenti in circostanze similari4.
Nell’ambito delle disposizioni domestiche, allo scopo di recepire i chiarimenti e le revisioni concordate dal progetto BEPS, tra l’altro, con le Azioni 8-10 - Aligning Transfer Pricing Outcomes with Value Creation, recepite nelle predette Guidelines 2017, sono state aggiornate, tra l’altro, le disposizioni relative al regime degli oneri documentali in materia di transfer pricing (Master file e Country file) con l’obiettivo di fornire una migliore descrizione e valutazione delle operazioni infragruppo idonea a consentire all’Amministrazione finanziaria il riscontro della conformità dei prezzi di trasferimento praticati5. Al riguardo, in tema di beni immateriali del gruppo multinazionale, la nuova struttura del Master file prevede ora che si debba innanzitutto descrivere la strategia globale del gruppo, inclusa la localizzazione delle principali strutture di ricerca e sviluppo e la gestione dell’attività di ricerca e sviluppo. Inoltre, occorre poi fornire un elenco dei beni immateriali o dei gruppi di beni immateriali maggiormente rilevanti ai fini dei prezzi di trasferimento detenuti da ciascuna impresa coinvolta nelle operazioni e occorre ancora indicare anche i soggetti che hanno la titolarità giuridica dei già menzionati beni
immateriali. Comemeglio precisato dall’Agenzia delle entrate con la circolare del 26 novembre 2021, n. 15, tale capitolo deve comprende anche la descrizione:
• degli accordi relativi ai beni immateriali conclusi tra le entità appartenenti al medesimo gruppo, identificando anche le imprese associate, tra cui gli stessi sono stati stipulati, compresi gli accordi sulla ripartizione dei costi, i principali accordi per la prestazione di servizi di ricerca e sviluppo e gli accordi di licenza;
• delle politiche di prezzi di trasferimento relative alla ricerca e sviluppo e ai beni immateriali, delle transazioni rilevanti, unitamente all’indicazione delle entità locali, degli Stati coinvolti e della relativa remunerazione.
Attività di marketing da parte di imprese distributrici del gruppo
Giova evidenziare ancora, che in generale, una delle principali problematiche riguardanti gli intagibles riguarda la corretta allocazione dei profitti derivanti dall’utilizzo di tali intangibles che deve avvenire considerando le funzioni svolte, degli asset utilizzati e dei rischi assunti dalle diverse parti coinvolte nelle transazioni. Come abbiamo visto in precedenza, nonostante la proprietà legale del bene immateriale sia un elemento utile a stabilire il soggetto che ha diritto a ricevere i relativi ritorni economici, al fine di contrastare fenomeni elusivi6, occorre procedere all’analisi funzionale per comprendere se ulteriori soggetti hanno diritto a tali profitti. Nell’ambito del transfer pricing, quindi, si potrebbe porre il problema della determinazione di un pricing quando, ad esempio, le attività di marketing sono avviate da imprese che non sono proprietarie dei marchi di fabbrica o delle denominazioni commerciali di cui sono promotrici quali distributori dei beni. In detta fattispecie, come evidenziano le Guideline OCSE, occorre stabilire se dette imprese debbano essere remunerate o meno per queste attività. In sostanza ciò che viene in rilievo è verificare se l’entità del gruppo sopporta i costi, gli investimenti e gli altri oneri associati allo sviluppo, al miglioramento, al mantenimento, alla protezione e allo sfruttamento dei beni immateriali7.
Quando il distributore sostiene effettivamente il costo per la sua attività di marketing (ad esempio, in ipotesi in cui non vi è alcun accordo che consenta al proprietario legale di rimborsare le spese), l’analisi dovrebbe concentrarsi sulla misura in cui la distribuzione è in grado di condividere i potenziali benefici derivanti dalle sue funzioni per i beni utilizzati e sui rischi assunti attualmente o in futuro. In generale, nelle transazioni effettuate alle normali condizioni di mercato, la capacità di una parte che non detiene legalmente i propri marchi e altri beni immateriali di marketing di ottenere i benefici delle attività di mercato che aumentano il valore di tali beni immateriali, dipenderà principalmente dalla sostanza dei diritti di tale parte. Ad esempio, un distributore ha la
capacità di ottenere benefici dalle funzioni svolte, dalle attività e dai rischi assunti nello sviluppo del valore di un marchio e da altri beni immateriali del mercato dal suo fatturato e dalla quota di mercato quando ha un contratto a lungo termine che prevede diritti esclusivi di distribuzione per il prodotto con marchio registrato. In una situazione del genere, gli sforzi del distributore potrebbero aver aumentato il valore dei suoi beni immateriali, vale a dire i suoi diritti di distribuzione. In tali casi, i benefici del distributore dovrebbero essere determinati in base a ciò che un distributore indipendente riceverebbe in circostanze comparabili. In alcuni casi, un distributore svolge funzioni, utilizza beni o si assume rischi che superano quelli che un distributore indipendente con diritti simili potrebbe sostenere o svolgere a vantaggio delle proprie attività di distribuzione e che creano valore oltre quello creato da distributori situati in una posizione simile. In questo caso, un distributore indipendente normalmente richiederebbe una remunerazione aggiuntiva al proprietario del marchio o di altri beni immateriali. Tale remunerazione potrebbe assumere la forma di maggiori profitti di distribuzione (risultanti da una diminuzione del prezzo di acquisto del prodotto) o di una riduzione del tasso di royalty o ancora di una partecipazione ai profitti associati all’aumento del valore del marchio o di altri beni immateriali di marketing, al fine di compensare il distributore per le sue funzioni, risorse, rischi e creazione di valore8.
Quando il distributore sostiene effettivamente il costo per la sua attività di marketing (ad esempio, in ipotesi in cui non vi è alcun accordo che consenta al proprietario legale di rimborsare le spese), l’analisi dovrebbe concentrarsi sulla misura in cui la distribuzione è in grado di condividere i potenziali benefici derivanti dalle sue funzioni per i beni utilizzati e sui rischi assunti attualmente o in futuro. In generale, nelle transazioni effettuate alle normali condizioni di mercato, la capacità di una parte che non detiene legalmente i propri marchi e altri beni immateriali di marketing di ottenere i benefici delle attività di mercato che aumentano il valore di tali beni immateriali, dipenderà principalmente dalla sostanza dei diritti di tale parte. Ad esempio, un distributore ha la
capacità di ottenere benefici dalle funzioni svolte, dalle attività e dai rischi assunti nello sviluppo del valore di un marchio e da altri beni immateriali del mercato dal suo fatturato e dalla quota di mercato quando ha un contratto a lungo termine che prevede diritti esclusivi di distribuzione per il prodotto con marchio registrato. In una situazione del genere, gli sforzi del distributore potrebbero aver aumentato il valore dei suoi beni immateriali, vale a dire i suoi diritti di distribuzione. In tali casi, i benefici del distributore dovrebbero essere determinati in base a ciò che un distributore indipendente riceverebbe in circostanze comparabili. In alcuni casi, un distributore svolge funzioni, utilizza beni o si assume rischi che superano quelli che un distributore indipendente con diritti simili potrebbe sostenere o svolgere a vantaggio delle proprie attività di distribuzione e che creano valore oltre quello creato da distributori situati in una posizione simile. In questo caso, un distributore indipendente normalmente richiederebbe una remunerazione aggiuntiva al proprietario del marchio o di altri beni immateriali. Tale remunerazione potrebbe assumere la forma di maggiori profitti di distribuzione (risultanti da una diminuzione del prezzo di acquisto del prodotto) o di una riduzione del tasso di royalty o ancora di una partecipazione ai profitti associati all’aumento del valore del marchio o di altri beni immateriali di marketing, al fine di compensare il distributore per le sue funzioni, risorse, rischi e creazione di valore8.
Corte di Giustizia Tributaria II Grado - sentenza n. 609/2023
I giudici tributari di II grado della Lombardia, con la sentenza del 15 febbraio 2023, n. 609, hanno ritenuto corretto l’operato di una società domestica controllata di una società estera, in relazione all’applicazione della disciplina del transfer pricing, ex art. 110, comma 7, del T.U.I.R., con particolare riguardo al mancato riaddebito alla controllante delle spese sostenute per lo sviluppo, mantenimento e di pubblicità afferenti ai prodotti commercializzati (identificati dal marchio del gruppo) nel proprio mercato di riferimento. Più in dettaglio, l’avviso di accertamento da cui è originato il contenzioso in disamina evidenziava che l’impresa domestica aveva sostenuto alcuni costi per la sua attività di marketing volti alla valorizzazione dei marchi di fabbrica e dei nomi commerciali di proprietà della capogruppo non residente per la commercializzazione di beni durevoli, elettronica di consumo, grandi elettrodomestici e prodotti audio TV, non riaddebitati a quest’ultima titolare dell’intangible, con conseguente ripresa a tassazione di componenti positivi non dichiarati, in violazione alle disposizioni in materia di transfer pricing, pari ai predetti costi incrementati da un margine di profitto9. Infatti, ripercorrendo la sentenza in rassegna emerge che secondo l’Amministrazione finanziaria l’impresa domestica assumendo i rischi finalizzati all’incremento del fatturato e diretti alla comunicazione e alla valorizzazione del suddetto marchio, di cui non era proprietaria, sulla base dell’arm’s lenght principle doveva procedere al riaddebito dei costi di pubblicità e sponsorizzazione che erano stati dalla stessa sostenuti poiché connesse allo sviluppo del valore di fabbrica e dei nomi commerciali dei marchi a favore della titolare capogruppo estera. La contribuente presentava ricorso ai giudici di prime cure avverso l’illegittimità del suddetto avviso di accertamento, in quanto riteneva che i costi de quo, che per l’Amministrazione finanziaria dovevano essere oggetto di riaddebito, nella sostanza erano afferenti a spese finalizzate ad incrementare le vendite dei prodotti distribuiti dalla ricorrente sul mercato italiano e, quindi, totalmente compatibili e coerenti con le attività distributive che caratterizzavano il profilo funzionale dell’impresa domestica. Contro la sentenza sfavorevole dei giudici di prime cure la società presentava ricorso in appello ribadendo, in sintesi, che le iniziative pubblicitarie poste in essere sarebbero state necessarie per lo sviluppo del proprio canale distributivo nel mercato di riferimento con l’evidente ed esclusivo obiettivo di ottenere un incremento delle proprie vendite, nonché di mantenere ed espandere la propria quota di mercato in un’epoca in cui il settore merceologico di riferimento affrontava un periodo di forte crisi. Inoltre, si evidenziava che tali costi erano classificabili tra quelli di pubblicità “tradizionale” (trattandosi di spazi pubblicitari su riviste e radio e TV italiane, sviluppo del sito internet, promozione sul territorio di squadre giovanili di basket, campagne con testimonial italiano non di rilievo internazionale) e il relativo sostenimento era stato finalizzato a incrementare le vendite dei prodotti distribuiti sul mercato italiano. La Corte di Giustizia di appello di Milano ha riconosciuto l’illegittimità dell’accertamentomettendo in primis in evidenza la politica commerciale intrapresa dalla società che, in un mercato come quello degli elettrodomestici già in crisi, è stata volutamente strutturata al posizionamento e sviluppo di un’attività di promozione, comunicazione e marketing finalizzate all’aumento delle richiamate vendite sul mercato italiano.
In questo contesto, la tesi dell’Ufficio finanziario secondo cui i costi di pubblicità avrebbero dovuto essere automaticamente ribaltati al gruppo, è stata considerata alla stregua di una mera presunzione, tra l’altro, non provata, considerata l’importante evidenza che la società non aveva mai subìto riaddebiti per la diffusione e/o valorizzazione del marchio né aveva mai pagato royalties per il suo uso, elementi questi che escludono un vantaggio concreto, in termini monetari, ricavato dal gruppo. Inoltre, viene pure posto in evidenza che la stessa
logica economica del distributore, rappresentata dall’esigenza di preservare e di aumentare la propria quota di mercato, ricalca le Guideline OCSE, che ammettono politiche tese anche a sostenere costi più elevati o maggiori sforzi di marketing con l’obiettivo di penetrare in un nuovo mercato oppure di aumentare o di difendere la propria quota di mercato. Pertanto, per i giudici tributari di appello non sussisteva alcun obbligo di ripianamento da parte del gruppo delle spese di sviluppo, mantenimento e pubblicità sostenute dal distributore locale, in quanto queste spese non sono collegabili al potenziamento del valore del marchio a livello internazionale e non rispondono a logiche strategiche a livello globale, ma per l’appunto riflettono soltanto
scelte intraprese dalla controllata domestica nell’ambito della sua autonomia decisionale all’interno del mercato di riferimento.
In questo contesto, la tesi dell’Ufficio finanziario secondo cui i costi di pubblicità avrebbero dovuto essere automaticamente ribaltati al gruppo, è stata considerata alla stregua di una mera presunzione, tra l’altro, non provata, considerata l’importante evidenza che la società non aveva mai subìto riaddebiti per la diffusione e/o valorizzazione del marchio né aveva mai pagato royalties per il suo uso, elementi questi che escludono un vantaggio concreto, in termini monetari, ricavato dal gruppo. Inoltre, viene pure posto in evidenza che la stessa
logica economica del distributore, rappresentata dall’esigenza di preservare e di aumentare la propria quota di mercato, ricalca le Guideline OCSE, che ammettono politiche tese anche a sostenere costi più elevati o maggiori sforzi di marketing con l’obiettivo di penetrare in un nuovo mercato oppure di aumentare o di difendere la propria quota di mercato. Pertanto, per i giudici tributari di appello non sussisteva alcun obbligo di ripianamento da parte del gruppo delle spese di sviluppo, mantenimento e pubblicità sostenute dal distributore locale, in quanto queste spese non sono collegabili al potenziamento del valore del marchio a livello internazionale e non rispondono a logiche strategiche a livello globale, ma per l’appunto riflettono soltanto
scelte intraprese dalla controllata domestica nell’ambito della sua autonomia decisionale all’interno del mercato di riferimento.
Considerazioni conclusive
Dalla sentenza dei giudici tributari di appello, ne discende che, come supra evidenziato, seppur le Guidelines OCSE prevedono l’ipotesi in cui il distributore locale nella fattispecie delineata (i.e. sostenimento di costi per attività di marketing) potrebbe aver diritto ad una remunerazione per le ulteriori funzioni svolte nello sviluppo del marchio di cui non detiene la legal ownership, occorre in ogni caso effettuare un’attenta analisi funzionale10 per stabilire se in concreto dalle attività locali svolte dal distributore vi è stato un effettivo vantaggio per il gruppo in termini di potenziamento del valore del marchio a livello internazionale.
Pertanto, possiamo concludere nel ritenere che in assenza di un accordo tra le parti che preveda il rimborso di tali spese promozionali, come pure in assenza del pagamento di royalties per l’uso del marchio e di contributi per la partecipazione ad attività di ricerca e sviluppo e dimiglioramento del medesimo marchio, nessun riaddebito dovrebbe essere effettuato a carico della controllante non residente proprietaria del marchio, in considerazione del fatto che le iniziative pubblicitarie poste in essere dal distributore locale nel proprio mercato di riferimento e in piena autonomia hanno il solo precipuo scopo, in linea con il suo profilo funzionale, di preservare ed aumentare la propria quota di mercato.
Pertanto, possiamo concludere nel ritenere che in assenza di un accordo tra le parti che preveda il rimborso di tali spese promozionali, come pure in assenza del pagamento di royalties per l’uso del marchio e di contributi per la partecipazione ad attività di ricerca e sviluppo e dimiglioramento del medesimo marchio, nessun riaddebito dovrebbe essere effettuato a carico della controllante non residente proprietaria del marchio, in considerazione del fatto che le iniziative pubblicitarie poste in essere dal distributore locale nel proprio mercato di riferimento e in piena autonomia hanno il solo precipuo scopo, in linea con il suo profilo funzionale, di preservare ed aumentare la propria quota di mercato.
Note:
1 In tal senso, si veda la Commissione tributaria provinciale di
Milano - Sez. 23, sentenza del 27 maggio 2020, n. 1023, in
Norme & Tributi Plus de Il Sole - 24 Ore del 30 agosto 2020 -
“Pubblicità inerente se legata ai ricavi nel mercato italiano”, di
M. Nessi - R. Torelli.
2 Per un approfondimento, si rimanda, tra gli altri, a P. Valente,
“Transfer pricing: criticità nella remunerazione dei beni intangibili”,
in il fisco, n. 13/2015.
3 Da ciò ne deriva che l’arm’s lenght principle, oltre ad essere uno
strumento di corretta allocazione dei redditi assume in tal caso
anche una finalità antielusiva.
4 Si veda in merito, tra gli altri, A. della Rovere - F. Vincenti,
“Transfer pricing: le nuove Guidelines dell’OCSE”, in questa
Rivista, n. 10/2017.
5 Giova ricordare che il regime premiale degli oneri documentali
è stato introdotto per la prima volta in Italia dall’art. 26 del D.L.
31 maggio 2010, n. 78, disciplinato dal Provvedimento
dell’Agenzia delle entrate del 29 settembre 2010, n. 137654 e
sostituito dal più recente Provvedimento AdE 23 novembre
2020, n. 360494, dal periodo d’imposta 2020, in linea con
quanto previsto dal D.M. 14 maggio 2018 che detta le linee
guida domestiche in materia di transfer pricing.
6 Sulla base degli studi effettuati dall’OCSE, lo spostamento di
materia intangibile nell’ambito di un gruppo multinazionale
rappresenta una delle modalità maggiormente utilizzate dalle
imprese per attuare il c.d. profit shifting.
7 Devlopment, enhancement, mintenance, protection and exploitation
ovvero c.d. funzioni DEMPE).
8 In proposito, si vedano le nuove Guideline OCSE in materia di
prezzi di trasferimento rilasciate nel mese di gennaio 2022 - Cap.
VI - par. B4.1. Development and enhancement of marketing intangibile
- 6.78.
9 Giova ricordare che la Corte di Giustizia Tributaria (CGT) di
secondo grado della Lombardia (Comm. trib. reg.), con la
sentenza dell’8 aprile 2021, n. 1373, ha stabilito, in linea con
le Guidelines OCSE, che il riaddebito delle prestazioni di servizi
intercompany resi da terzi direttamente in favore di una società del
gruppo, non dà luogo ad alcun ricarico se la società si limita a
riaddebitare il solo costo pattuito tra le consociate. Si veda in
merito, A. Veneruso, “Servizi intercompany: è legittimo il riaddebito
dei costi c.d. pass through senza l’applicazione di un
adeguato mark-up” in questa Rivista, n. 4/2023.
10 Sulla base delle funzioni svolte, degli assets impiegati e dei rischi
assunti.